vendredi 27 avril 2018

Biennale Disegno Rimini MADMEG "i Patriarca"

Biennale Disegno Rimini

MADMEG "i Patriarca"

a cura di Rodolfo Gasparelli

Museo della Città, Rimini
28 aprile - 15 luglio 2018


Che scrittura e disegno abbiano tanti aspetti in comune è cosa risaputa. In primis, forse, il fatto di tratteggiare una possibilità rappresentativa del mondo nella quale l’oggetto si costituisce come immediatamente simultaneo all’esecuzione, effettuandosi nel suo corso. Se guardiamo all’opera di Mad Meg, ciò risulta ancor più palese: nelle sue carte, contrassegnate da un’iperbolica precisione del tratto, l’immagine è la risultante di una graduale chiarificazione dell’oggetto, di un processo discorsivo in cui scrittura e disegno tendono a compenetrarsi, con frasi e periodi impiegati come linee grafiche, sintagmi convertiti in simboli, quasi a voler suggerire una direzione ideogrammatica dell’insieme. La scrittura diviene in questa sede una modalità del disegno – spogliata da qualsiasi residuo contenutistico, essa si traduce in un codice visivo del tutto funzionale all’emersione dell’immagine.
C’è da aggiungere che la stessa clarté cartesiana del tracciato è direttamente proporzionale alle condizioni della sua illeggibilità: distinto da ciò che nel regime verbale potrebbe significare, il testo tende a incedere con la stessa, sillabica, fluidità di un algoritmo, alla stregua di una pura e semplice combinazione segnica, e ciò nonostante continua a imporsi, nell’immaginario dello spettatore, come modello di riferimento. Si tratta di un effetto che si verifica per mezzo di un preciso stratagemma stilistico, del quale tra l’altro l’artista riesce ad esplorare tutte le virtualità, anche le più periferiche. Se da una parte è lei stessa a dirci di non essere interessata al contenuto dello scritto di cui si serve per computare l’immagine, tuttavia l’atto stesso del trascriverlo finisce per riattivarne l’eco. Copiando riscrive, e riscrivendo commenta. La tecnica della citazione, da lei applicata con una metodicità che ricorda molto da vicino il fare dell’amanuense, giunge, in queste tavole, al suo apice espressivo. E d’altronde questo paragone con il medievale compilatore di manoscritti non è poi così peregrino: vuoi per la vocazione certosina della stesura, che porta agli estremi l’unità di parola e segno orientandola verso una scrittura completamente iconica; vuoi per la fedeltà anastatica del suo esercizio, che non cela le fonti da cui attinge, anzi. Siano esse tavole geografiche, artistiche, fotografiche o entomologiche ne esalta il prestito, dichiarandolo in modo esplicito.
Nel suo caso l’intertestualità offerta dalla citazione si esprime insomma alla sua ennesima potenza, soprattutto in vista della felice congiunzione di canone (la forma di partenza, già codificata) e invenzione – quel détournement determinato dal prelievo di tale forma dal quadro storico, sociale e culturale di riferimento. Per una strana alchimia, la forma divelta dal suo contesto perde di colpo il suo carattere di testimonianza per essere investita di un potenziale di estraneazione che si traduce in forza aggressiva. L’esito sono opere di una sorprendente vis satirica, ottenuta proprio mediante la compressione di una lunga catena di giudizi entro la trama rapida dei segni. Anche a dimostrazione di come, diversamente dalla tecnica gemella del montaggio, che oscura l’origine dei frammenti di cui fa uso simulando una casualità del loro accostamento e quindi depotenziandone l’impatto, la citazione permetta una relazione sincronica di tutti i piani – linguistico, culturale, visivo – diretta a innescare la loro latente virulenza.
Nella serie de I Patriarchi, così come in altri lavori che prendono le mosse dal repertorio dei dipinti classici, Mad Meg riesce concretamente ad applicare il dispositivo della citazione nella sua duplice terminologia: da una parte quella canonica, in qualità di richiamo a un precedente pittorico o semantico, dall’altra quella giuridica, nel senso di “chiamata a giudizio”, di denuncia. L’indice sarà spesso puntato contro il buon senso comune o le spavalde personificazioni di un sistema di potere (l’imperialista, il conservatore, il cardinale, solo per citarne alcune) che incarnano il grado zero dell’umano, la sua inettitudine. Quando, per uno strano gioco di parole, forse possibile solo nella nostra lingua, essa si fa compiuta insettitudine – Kafka docet. 


testo di Roberta Bertozzi